domenica 26 dicembre 2010

gesù bambino

è immobile in una culla tutta bianca.
ha il volto liscio e gli occhi grandi e sgranati,
e ha bisogno di tutto.
senza denti, affamato, assetato,
una maglietta e un pannolino a coprirlo;
e ha anche un po' di febbre.

eppure, quando ci guarda, sorride:
gli occhi azzurri si allargano di luce,
e ci allagano di amore.

tutti attorno, noi, pastori storditi dal pranzo di natale,
preoccupati per la sua vita.

ma lui sorride, e ci indica la sua stella.
'ci sono più angeli in terra che in paradiso', dice.
e lo dice, caparbiamente, da ottantacinque anni.

buon natale, papà.

mercoledì 22 dicembre 2010

quanta vita


la sala più bella della nave è piena di clandestini, raccolti in rispettoso silenzio.
qualcuno di loro sta suonando. emozionati, concentrati, a turno, fanno sentire ai compagni quanto hanno imparato, con caparbietà, notte dopo notte, accordo dopo accordo, lottando per far convivere le versioni di isocrate, le leggi di gauss, gli aforismi di nietzsche, con le sonate di schumann, i concerti di grieg, le improvvisazioni su temi natalizi, affrontati tutti con equilibrio e personalità.

nessuno è salito sulla nave, dal mondo_fuori. siamo solo noi, complici, in precaria armonia. se facessimo tutti ancor più silenzio, potremmo sentire il battito della vita, distinto, nitido, passare dai loro cuori, attraversare i loro strumenti, arrivare ai nostri cuori, guidato dal ritmo della musica.

è tanta, questa vita. troppa, forse.
mi sento sopraffare da tutta questa vita, così labile, esile, fragile, eppure tenace. la sala più bella della nave mi sembra, per un preciso lunghissimo momento, l'esatta misura della vita.

(però, in disparte, una mamma c'è. è la madre di una clandestina concertista, che è contemporaneamente parte della ciurma. nei suoi occhi, l'orgoglio per ogni nota che ascolta, e insieme lo strazio per un futuro che ignora. 'torno a fare la chemio il 4 gennaio' mi dice. 'stalle vicina'. e allora sì, che la musica può curare. anche se, forse, non guarisce. ché dalla troppa vita non si guarisce. mai.)

martedì 14 dicembre 2010

li romani in russia


" se i giovani d'oggi, oltre a studiare la chimica o il greco, sapessero raccontare la storia dei loro nonni, si assisterebbe a una piccola rivoluzione culturale'.

questo è scritto qui:
http://www.liromaninrussia.it/

ma qui c'è una presentazione dello spettacolo:

http://www.tg2.rai.it/dl/tg2/RUBRICHE/PublishingBlock-4d179a82-04c1-4164-856b-2afc28c38206.html



e va tutto bene. giusto sapere i dati, le motivazioni, i nomi, le date.

ma quello che non si trova nella rete vale di più di quello che si trova.
quello che non si trova nella rete è una serata fredda, che anticipa il natale, in cui le persone rischiano di diventare 'la gente chiusa in casa davanti alle televisioni'. in cui la stanchezza e la pigrizia (anche mentali) rischiano di giocare un brutto tiro all'intelligenza.

e invece no. si resiste alla tentazione, come per un dovere con se stessi. e si esce.
nel teatro le persone restano uomini, donne, ragazzi. non sono più la gente indistinta e vulnerabile dei televoti. tornano esseri pensanti, pronti a lasciarsi interrogare, di nuovo, dalla storia, che bussa alla loro porta, che chiede ascolto, che emoziona e rende vivi.

il racconto di elia marcelli è potente anche da solo, con quelle ottave dal ritmo epico, con quella lingua scintillante, in bilico fra la più alta tradizione dei cantari e il filo indissolubile che lega la poesia al popolo.
ma il racconto scenico aggiunge molto di più.

cristicchi e benvenuti danno spessore alla voce di un uomo che ha visto e vissuto la storia scottandosi indelebilmente, sporcandosi la vita con ricordi incancellabili, cercando spiegazioni impossibili, portando dentro gli occhi visioni inimmaginabili, in un inferno personale che di certo non si è esaurito col ritorno alla normalità, ma che, anzi, si è dilatato all'infinito, come accade a chiunque sia stato dove l'uomo non dovrebbe essere mai: nello spazio indicibile ed assurdo della guerra.

cristicchi è solo in scena, e si fa possedere dalla voce di elia, uno dei pochi superstiti dalla ritirata di russia. ma è evidente che, dentro quella voce, così riconoscibile, così romanesca, così popolare, stanno nascoste le voci senza suono di tutti i morti, i dispersi, i ragazzi che un potere follemente miope mandò a morire, in quell'anno sciagurato.

la faccia lunare e drammatica dell'attore non perde niente della sua individualità. persino i capelli, gli occhiali, sono gli stessi dentro e fuori scena. solo 'i panni sudici di guerra', come quelli di ungaretti ne 'i fiumi', sono quelli dell'esercito del tempo. perché chi parla vuole che ciascuno di noi lo riconosca, contemporaneamente, dentro e fuori dalla scena. perché chi parla vuole che ciascuno di noi riconosca in lui la presenza dei tanti, dei troppi, uomini, che, in ogni epoca, hanno perso la vita in guerra. e si riconosca fratello di ognuno di quei morti, da qualunque parte fossero morti.

quello che non si trova in rete è il silenzio raccolto ed emozionato. è l'eco degli applausi che sciolgono il gelo del cuore alla fine del racconto. è una collana di pensieri di vita, al termine di uno scenario di morte.
è il viso di mio figlio che mi dice 'grazie perché mi hai dato l'opportunità di vedere la storia'.

domenica 21 novembre 2010

gli occhi dell'artista



diffidiamo degli artisti con gli occhiali da sole. gli occhi degli artisti sono un mondo inaccessibile comunque. pleonastico nasconderlo dietro occhiali scuri. e inutile pretendere di esplorarlo.
perciò mettiamo i nostri occhi negli occhi degli artisti, e perdiamoci nelle loro traiettorie sghembe, alla ricerca della poesia e di qualche emozione di riflesso.
perciò innamoriamoci degli occhi degli artisti, che sanno già fin da prima che noi non riusciremo a comprendere fino in fondo quello che provano, ma che non rinunciano a condividerlo, comunque.




gli artisti dietro occhiali da sole nascondono, forse, solo una congiuntivite. ma, forse, anche la paura di rivelare il loro vuoto.
gli artisti dietro occhiali da sole sfuggono dall'intimità oscena col loro pubblico, che fruga fra i loro battiti di ciglia, per cogliere una vibrazione fuggita via per sempre.
gli artisti dietro occhiali da sole vorrebbero avere più carisma e sintomatico mistero (cit.), ma si fermano al di qua dell'intenzione, come un fascio di luce riflessa.



gli occhi dell'artista cantano, raccontano, evocano, si annebbiano, inseguono sogni o incubi, li vedono musica, parola, gesto, prima ancora che questi compaiano.
gli occhi dell'artista, quando si chiudono, lo fanno perché non sopportano la profondità del mondo in cui si immergono.
o perché non sopportano la superficialità del mondo da cui fuggono.

domenica 7 novembre 2010

ahi, serva italia



i clandestini ascoltano
incrociano le parole e gli sguardi
hanno dante davanti, ma negli orecchi queste e quelle canzonette
che, certo, sono solo canzonette, ma quanto vere



lo spazio si riempie di senso
non c'è più differenza fra il fuori e il dentro
fra il letto e l'ascoltato
fra lo ieri e l'oggi
fra il nord e il sud



i volti si fanno scuri
il planh ha centrato ancora l'obbiettivo

giusto per non restare senza parole
ascoltiamo chi le parole, le ha trovate.

giovedì 7 ottobre 2010

mal_fermo8

e c'è l'emilio. l'emilio si perde. l'emilio si ritrova nelle stanze degli altri.

l'emilio non sta fermo. l'emilio si blocca, e fissa senza guardare per lunghi minuti, e non importa se quello che sta fissando sia cosa, pianta, persona. lo fissa con la stessa formidabile intensità, come se volesse insieme entrarci dentro, o fuggirne.

l'emilio parla poco. l'emilio, quando parla, sgrana un rosario di vocalizzi incomprensibili, e una frase non ha mai, mai, senso compiuto. a volte inizia con un senso, e si perde in parole sconnesse, o inventate. altre volte succede il contrario. ma sempre, sempre, chi lo ascolta resta come incantato dalla nenia che la sua voce sciorina, dal suo linguaggio segreto.

l'emilio ha una moglie, e una figlia, che, quando non ci sono, cerca, e che, quando ci sono, non riconosce.

l'emilio faceva il meccanico, montava e smontava automobili. ora monta e smonta le parole e i pensieri, ma nessuno si rimette in moto.

l'emilio prende per mano tutti, ma evita le persone in divisa. i medici, le infermiere, gli inservienti.

l'emilio ha un ricordo, che però non sa dimenticare. ed è un ricordo che sa di divisa, di prigione, di lager.

l'emilio è stato in un lager. e, ogni tanto, piange.

l'emilio non si rimetterà più in moto.

non per niente, alzheimer è un cognome tedesco.

lunedì 4 ottobre 2010

il senso di slava per la neve



slava ha sei e sessant'anni
slava è uomo e donna e si parla e si risponde con un telefono di peluche
slava ha sei ombre diverse da lui che lo seguono e cantano blue canary



slava fa di un letto una barca, e di un cappotto la sua innamorata
slava trasforma la carta in neve, e ti intrappola in una ragnatela grande come un teatro




slava conosce il teletrasporto, ma non nello spazio
slava teletrasporta nel tempo, nel tempo stupito dell'infanzia
slava evoca i sogni e le paure, e trasforma queste in quelli



slava prende di mira le regole, e le abbatte col suo fucile di fantasia
slava non ride quasi mai, ma fa ridere il cuore
slava travolge con una tempesta di vento e di neve, che non sembra vera, ma lo è



slava se ne va, lasciandoti un po' di carta e di fili sulla giacca
e un po' di nostalgia per un eden perduto nel cuore.

domenica 19 settembre 2010

wonderland





immaginate un posto in riva al lago, fra una villa antica e una struttura moderna, immerso in un parco secolare.
e immaginate che questo posto sia pieno di musica. di gente che fa musica. che vende musica, che ci vive e ne parla. di gente che fa fatica a vivere con la musica, ma che senza musica morirebbe.
immaginate un palco, in quel posto in riva al lago. e sotto il palco cinquecento ragazzi. ma sopra il palco altri ragazzi, che cantano, suonano, duettano con un cantautore affermato, ricevono i suoi incoraggiamenti, e senza vincere altro che il luccichio dei loro occhi.
immaginate che questo accada in una normale mattinata di lezione, e che il provveditore agli studi dia la sua benedizione, e che i professori applaudano, e che si siedano vicini ai loro studenti, sul parquet, sotto il palco.

http://www.youtube.com/watch?v=iRyEkBUPkS4


poi pensate che questo è accaduto, per un giorno, a cernobbio.
e io c'ero.

venerdì 3 settembre 2010

leonard cohen, the geometry of beauty

c'è la natura. e la natura è fatta di atomi, di cellule, che si dispongono in armonie ed equilibri misteriosi, che non hanno segno positivo o negativo, ma che esistono, e non si chiedono il perché.

e c'è l'uomo, parte della natura, e in quanto tale composto della stessa materia, sangue che scorre, particelle di energia che fluiscono, pulsazioni di cuore, saliscendi di pressione, dilatazioni di pupille, ritmo respiratorio. ma l'uomo è capace di rielaborare la materia, e renderla sensazioni, emozioni, sentimenti. i più sensibili amplificano tutto ciò, e lo fanno diventare poesia, arte, musica, nello stesso, misterioso modo.



l'acqua dell'arno scorre quieta e disciplinata, stasera, a poca distanza da qui. posso immaginare il suo fluire verdognolo verso il mare. e anche l'arno è composto da infinite particelle d'acqua, che insieme sono moto, rumore, energia, fiume.

e le stelle sono lontane, ci arriva di loro una luce fredda; non scaldano, però come sarebbe vuota la notte senza di loro. e l'uomo ha dato nomi anche a loro, nomi familiari e antichi, per renderle parte del suo mondo.





anche piazza santa croce è fatta di materia, certo. marmi e pietre e sassi di varie specie. e stasera ci sono tubi e transenne e sedie di plastica e bicchieri di birra e bottigliette d'acqua, e lampade e amplificatori, fili elettrici e strumenti di ogni tipo. cose fatte dall'uomo, che stasera gli servono a creare qualcosa che non si può toccare, e a cui è riuscito però, anche qui, a dare un nome: armonia.

ci sono io, fra gli uomini e le donne in piazza santa croce, stasera. e con me ci sono alcuni cari amici, e soprattutto ci sono i miei figli, che ho voluto con determinazione portare qui, perché voglio che questa geometria di bellezza resti anche nelle loro memorie private.

ci sono io, ma il nostro essere qui non avrebbe senso, senza la musica e l'armonia di leonard cohen, quello che forse più di ogni altro, in questi decenni, ha fatto diventare poesia, arte, musica, lo slancio della materia verso la propria armonia, inscritta in ogni suo atomo.



l'artista è perfetto, epico, giovane dell'eterna giovinezza dei semidèi, quando imbraccia la chitarra, o canta con una voce dalle profondità insondabili, o si inginocchia durante i brani più ispirati.

l'uomo è fragile, tormentato, anziano dell'eterna antichità degli sciamani, quando si toglie il cappello per ringraziare musicisti e pubblico, o smette di cantare, e si allontana, curvo di anni e stanchezza.



e io sono un po' lui, con la sola, importante, differenza che lui riesce ad esprimere la bellezza delle contraddizioni, nello spazio di tre ore (composte a loro volta di brani di cinque minuti l'uno, a loro volta suddivisi in sequenze di battute musicali e di parole precise scandite in sillabe, e via così, in quella vertigine di scomposizione e ricomposizione che è poi la vita), e a condividerla con me, che, un po' stordita da tanta epifania, mi volgo attorno, e vedo gli altri volti, le luci, ascolto le voci e i suoni, immagino l'arno vicino, le stelle lontane, e sorrido pensando che, se fossi l'arno o una stella, stasera sarei invidiosa della fragile, caduca, ma potentissima umanità, capace di arrivare, durante il tempo incommensurabile di un'intuizione, nello spazio infinito di un battito, alla redenzione.



tutti noi, lui, i musicisti, i miei amici, quelli che sono qui in piazza e quelli che sono qui nel mio cuore, i miei figli, e anch'io, tutti, uccelli sul filo, nati in catene, losers neanche tanto beautiful, ma stasera, vestìti di stracci di luce, per fare cantare il nostro bisogno di poesia attraverso la sua voce, suonare le nostre campane, e sentirci non solo materia, almeno per una sera.



o forse più a lungo.





(But I swear by this song/ And by all that I have done wrong / I will make it all up to thee.)

giovedì 26 agosto 2010

thunder road - il vento nei capelli




(dedicata ai 35 anni di born to run)

c'erano meno tre sottozzzero
ma non importava
la ragazza mise su il cd di hammersmith (regalato dall'uomo della
sua vita, scaricato dal dvd non sapeva dove né come), e l'armonica
di bruce soffiò sul suo cuore

viaggiando verso il lavoro, ottemmmezza di mattina, abbassò il vetro
del finestrino e lasciò che il vento soffiasse nei suoi capelli

volume venti
voce spiegata
questa è thunder road, como, lascia che soffi un po' anche su di te,
como

e di colpo realizzò:
1. che faceva un freddo boiazzo, ma che si sentiva viva
2. che amava l'uomo della sua vita che l'ha portata via senza farla
muovere da casa
3. che adorava quando le ali diventano ruote e viceversa
4. che amava la vita anche perché c'è dentro bruce
5. che appena avrebbe potuto ci avrebbe scritto qualcosa su

ecco
appena poté, la ragazza che si chiama laura, ma fa mary di secondo
nome, ci scrisse qualcosa su.

martedì 20 luglio 2010

i mohicani in cava

siamo prigionieri dei mohicani, qui dentro. in questo posto, in cui è bello osservare l'espressione di chi ci entra per la prima volta, e, dopo aver percorso un tunnel buio, sbuca in una cava, immersa nel silenzio di una montagna lombarda. e le pietre sorridono, sembrano parlare e far percorrere una strana linfa tutta loro attraverso le vene della loro roccia.
siamo arrivati su alla spicciolata, dopo un pomeriggio di musica e amicizia e salamelle e birra, musica al sole nel parco, musica all'ombra in un cortile, con una finestra che parlava della bellezza.







e ora siamo prigionieri dei mohicani. una signorina figlia di papà, ma con una freschezza e un'umiltà che solo le ragazzine americane vere sanno avere.
un signore che ricrea le atmosfere del texas, rudi e spirituali, come è giusto che sia per chi ha sempre il deserto di fronte.




un ex punkrocker che ha nello sguardo il brillìo del genio, e si circonda di ragazze non per emergere, ma per farle splendere di tutta la loro bravura.



e ci piace essere prigionieri. i sorrisi si allargano, le voci si fanno più chiare, come gli occhi, che luccicano di piacere.
il padrone di questa prigione si aggira con una maglietta che sembra essere un invito. il custode ha lo sguardo stanco, ma che esprime una gioia indicibile, per aver portato lì, tutti insieme, i suoi amici e i suoi miti.

un po' in disparte, con il suo carico di sogni da vendere, sorriso sornione e basco in testa, immancabile sigaretta e bicchiere sempre pieno, quello che coi mohicani per primo ha parlato. e che ci ha fatto capire che era bello, molto bello, esserne prigionieri.




lontani, amici che avrebbero voluto esserci, e il cui respiro avvertiamo ad ogni battito di cuore.
a loro, l'augurio di poter cadere presto in questa prigione dorata.




lunedì 19 luglio 2010

three way street

la ragazza sgrana gli occhioni azzurri e dice: "chi sei andata a vedere? ma chi sono? e che musica fanno? ah...ma allora sono anziani!! no, no, mai sentiti..."

ragazza mia, chiedi chi erano crosby, stills, nash. ma chiedilo alle persone giuste.

quelle che venerdì riempivano l'arena di milano di tutti i loro acciacchi, i sogni realizzati e quelli mai compiuti, i ricordi di quando avevano molti capelli in più e molti chili in meno, erano saccenti e giovani, e credevano che avrebbero insegnato ai genitori e li avrebbero nutriti coi loro sogni, che avrebbero costruito una casa molto carina con gatti e fiori e un pianoforte per suonare le loro canzoni e avrebbero trovato posto dentro una risata e non si sarebbero mai tagliati i capelli (perché, allora, i capelli ce li avevano, e lunghi lunghi).

poi chiedi loro l'energia che hanno messo nel farci capire che diventare vecchi significa anche diventare umili, aver ancora da imparare dagli amici, sostenerli e comprenderli senza giudicarli, ed esserci, solo esserci, sempre.
infine chiedi una manciata di emozioni, e loro te ne daranno a piene mani. ti faranno sentire questa:



oppure questa:



o questa:



non conosci neanche queste? hai tempo per rifarti, se vorrai.
noi non abbiamo più tempo. il nostro tempo, l'abbiamo vissuto. e in sere come quella ci passa davanti tutto intero, e intatto, perfetto come la luce di un aereo che solca il cielo in una notte di luglio, mentre tre signori anziani dalla forma smagliante insegnano ai nipoti il percorso da fare.

mercoledì 14 luglio 2010

mal_fermo7

e c'è anche la ines,
mia cara ines.

un fagottino smarrito e lucido,
un filo di voce, da quando la clementina, la sua cara clementina,
una notte è caduta dal letto e si è, letteralmente, spaccata in tanti pezzetti, che nessuno è più riuscita a metterla insieme, e lei ha deciso di farsi rimettere insieme in un altro mondo.

andavano sempre a braccetto, la ines e la clementina,
gironzolando per il giardino, inventandoselo immenso, come i loro ricordi, sempre gli stessi, sempre diversi.
una puntellava l'altra, al punto che avresti detto che sarebbero state inseparabili.

ma non è mai come si vuole.
la clementina è caduta, e si è spaccata.
la ines da allora cammina meno, e si ferma al centro del giardino, seduta, a guardarsi intorno.
vede la clementina camminare altrove, e vorrebbe raggiungerla. ma il coraggio per cadere dal letto, per ora, proprio non ce l'ha.

martedì 29 giugno 2010

il mondo di Patti e l'amicizia sotto la stella polare

c'è ressa alla Feltrinelli. fa dannatamente caldo, qui dentro. e siamo anche in piedi. l'umanità non sembra mai tanto fastidiosa come quando fa caldo, siamo in piedi e c'è ressa. però vicino a me, ad aspettare Patti Smith, c'è una piccola. occhi chiari, treccine, vestitino leggero. guarda le caramelle con desiderio, le dico 'chiedi al signore, che magari te ne dà una', e lei si avvicina alla cassa e dice: 'vorrei una caramella ma non ho soldi'.
il barista le allunga un chupa chups, io le strizzo l'occhio, e lei mi guarda come se fossi una fata.

magari lo fossi. resteremmo lei, io e pochi altri qui dentro. farei sparire Luca Sofri, per prima cosa, ché uno che cita il Chelsea Hotel senza sapere che Lou Reed non c'è mai stato, e che chiede 'perché hai scritto quel libro? cos'hai provato quando è morto Mapplethorpe?' merita di fare domande a Povia in un Billa con l'aria condizionata rotta.

la piccola mi fa vedere orgogliosa il suo portachiavi con Hello Kitty, e io accarezzo lo sbuffo rosa morbido del ponpon, mentre Patti mi accarezza il cuore con le sue parole, e col sorriso splendente dei suoi occhi.
parla poco, giusto per dare una lezione di sintesi ai logorroici che, prima di farle una domanda, si sentono in dovere di sciorinare l'opera omnia delle loro conoscenze.
ma quel poco che dice apre il respiro, che sembra che non faccia più caldo, che Sofri e le tipe stilose e gli alternativi e i petulanti appiccicosi e appiccicati scompaiano, e resti l'umanità migliore. quella fatta fiorire dall'incontro casuale fra una ventenne in cerca di un pavimento su cui dormire e un ragazzo dai lunghi boccoli scuri e il sorriso aperto. un incontro propiziato dagli dèi dell'arte, e nutrito da due menti innamorate della vita.

la piccola mi chiede: 'ma come si chiama? Patti? come il mondo di Patti!!'
il mondo di Patti è amore, amicizia, arte e ricerca del bello. Patti è intrisa di spiritualità e di armonia. e ti rendi conto che quella è un'armonia sofferta, precaria, e perciò tanto più preziosa.
'ma ha i tuoi stessi occhiali! è vecchia?'
no, che non è vecchia, non lo sarà mai, piccola. ma tu non puoi ancora sapere. e, abbiamo gli stessi occhiali, sì. e ogni tanto ci scambiamo occhiate mute, quando, su questo pezzo,


mi vede seguirlo con le labbra, e fa di sì con la testa.

alla ricerca del contatto con la gente, a oltranza. anche quando uno del pubblico, particolarmente ispirato, grida 'SOFRI SEI IMBARAZZANTE! VAI A CASA!', lei sorniona gli chiede 'cos'ha detto?', Sofri abbozza, e lei 'no...it's important...when people speak, we have to listen!'
'cause people have the power, mi verrebbe da risponderle. ma glielo dico con gli occhi, che brillano di malizia, quando si toglie gli stivali per vedere la marca del calzolaio milanese che li ha fabbricati, o quando si alza 'solo per fare un po' di stretching'.

una meraviglia, insomma. e mi tocca anche spiegarlo alla piccola, che non demorde. però anche la piccola capisce, quando Patti risponde all'ultima domanda, lunghissima e contorta, che un americano direbbe solo 'qual è il tuo rapporto con la spiritualità?'. lei sorride, e risponde: 'il mio rapporto con la spiritualità? beh...prego!'.
la piccola capisce, e capisco anch'io. perché, forse, sono un po' piccola anch'io.
capisco una volta di più, in una Feltrinelli madida di sudore e grondante fashionisti, che sono restata quella ragazzina che cantava 'frederick' sognando il mondo di Patti, e che sto benissimo così. felice se qualcuno mi offre una caramella, felice di accarezzare la vita come un morbido ponpon, felice se un essere umano prende una chitarra e suona e canta, quando potrebbe anche andarsene.



due ore dopo, assisto all'incontro di boxe poetica fra Capossela e Cinaski. Capossela parla di mani sulle spalle amiche, e Cinaski dice 'riempi il tuo bagaglio di ricordi, speranze, parole, storie vissute e storie da vivere
riempilo di emozioni, musiche, liti, illusioni d’epoca, domande e risposte. trovati un amico e comincia la condivisione , l’esplorazione...'




la stella polare splende nel grigio della notte di Milano. e io, per ringraziare la vita, faccio come Patti. prego.

http://vimeo.com/13296269

mercoledì 23 giugno 2010

come un sol uomo, coi flogging molly

la musica, diceva aristotele, va praticata per usi molteplici, ma anche per l’educazione, per procurare la catarsi e in terzo luogo per la ricreazione, il sollievo e il riposo dallo sforzo.
questo dice aristotele.
ma quando la musica diventa corpo che si muove, sangue che pulsa, sudore che cola, gli usi si confondono. e non si sa più quanto sia catarsi, educazione e ricreazione.

l'alcatraz è un unico, grande corpo, che ondeggia ad ogni battuta, che canta, urla, beve, fuma, salta, si fa e si disfa come desidera. corpi vengono sollevati in aria, fatti passare in surfing, scaraventati oltre la transenna, e risorgono in un istante, con un'espressione di estasi.
il rito collettivo, educativo, catartico e ricreativo è celebrato da un signore di 49 anni, in giacca, cravatta e occhiali, come se ne incrociano a migliaia, spenti e s_morti, nelle vie della milano_da_lavorare.
eppure in quel signore, e nei suoi amici, batte un cuore punk rock, perdipiù irish, e pure incazzato (otto anni negli usa senza permesso di soggiorno devono pur incidere da qualche parte...). così, il rito che officia il signore, che di nome fa dave king, è quanto di più mistico, pagano e politico insieme esista. come la vera musica deve essere.



non cerchiamo originalità in un rito. i padri della bibbia si chiamano pogues, johnny cash, bob marley, dubliners, ramones (tutti citati e omaggiati nelle omelie, fra un pezzo e l'altro: in una, peraltro, ci sta pure un brindisi alla squadra sudafricana, per aver mandato a casa la 'fucking france'...)
però, però, il grande corpo dell'alcatraz risponde, compatto nella sua poliedricità. ci sono le coppie innamorate di sé e dell'irlanda, i punk con megacresta, i rockettari con maglietta delle seeger sessions, i ragazzi in kilt e topless, e le ragazze con piercing ovunque (ma col reggiseno, ché va bene essere punk, ma non troppo).
e c'è, soprattutto, un'oremmezza di ballate trascinanti, di gighe e di reel elettrificati, di dobhran e whistle mischiati a un basso da spaccare i cuori, e in cui ci sta pure un piccolo, prezioso set acustico, in cui il grande corpo riposa, si calma, recupera fiato e ascolta.

all'uscita, dopo la benedizione del reverendo king, 'grazie grazie mille milano!' col pugno sul cuore, e dopo aver ascoltato 'the parting glass' versione clancy, ci si ritrova, chi devastato, chi sfatto, chi solo stanco, ma tutti irrimediabilmente educati, ricreati e catartici.
perché questa è la musica, diceva aristotele.

giovedì 17 giugno 2010

déjà vu

in un giugno ottobrino, che se penso al 2003 neanche mi sembra possibile che allora facesse così caldo. mi trovo sbarcata dalla nave, che neanche mi sembra possibile che solo una settimana fa ci fossi ancora sopra.
e infatti mi viene il mal di mare, la testa ondeggia, ci vogliono ancore salde, ma non ci sono. non c'è l'àncora del tempo meteorologico, la certezza dell'inizio estate con tutti i crismi.
non c'è neanche quella del tempo cronologico, la percezione di uno scorrere uniforme che tenga insieme tutte le esperienze.

così, i ricordi si appiattiscono in un unicum, in cui il 2 giugno sembra più vicino del 15, la lettura del discorso di calamandrei ascoltata al monastero di torba torna nitida come se fosse stata vissuta stamattina. mentre la voce di davide a brugherio che canta 'gh'è ammò quajvun' si perde nel reticolo della memoria.



quello che non vedrò più, invece, saranno i potage insieme. speedy angel è stato davvero l'angelo più veloce nel raggiungere quel paradiso dei musicisti in cui spero, un giorno, di poter entrare come pubblico per meriti acquisiti.
e spero di ascoltare qunche questa:



così, in un giugno ottobrino, seduta al 35, che chi sa cos'è sa come ci si sta, resistendo eroicamente col mio ultimo damone e bevendo porto bianco e mangiando biscotti poi arachidi poi torta, mi trovo ad ascoltare questa:




e tutto intero dèjà vu. e mi arrivano ancora gli spruzzi di quell'ondata che mi colse più di trent'anni fa, di cui sentii solo gli ultimi schizzi, pensando, con ammirazione e apprensione insieme, a chi, quell'ondata, se la prese in pieno, e non fu più lo stesso.
déjà vu, appunto. la memoria, in un giugno ottobrino, che scherzi fa.

lunedì 24 maggio 2010

thanks, mr. dylan

oggi è il Suo compleanno, e La voglio salutare con il brano che più amo. perché è di quelli che sembrano nati con l'inizio del mondo. perché per me lui esiste da sempre, e l'ho ascoltato in tutte le salse, dalle traduzioni trucide dei canti dell'oratorio ('quante le strade che un uomo farà, e quando fermarsi potràààààà'), alle versioni elettriche dell'altro mio amico, neil ('all along the watchtower', e le sue visioni apocalittiche e buzzatiane).

Lei è nato con l'inizio del mio mondo, se non proprio con l'inizio del mondo tout court. ma per me, tutto è coinciso. la scoperta della musica con quella della Sua voce. l'inizio di tutto, appunto.

e mi auguro, gentile mr. Dylan, di poter presto tornare a vivere nella Sua stessa orbita. come anni fa, a Milano, quando realizzai di colpo che stavo respirando la stessa aria che passava attraverso la Sua armonica. e mi parve un miracolo. perché quando l'inizio del mondo si manifesta, si può solo respirare, e tacere.

buon compleanno.



Bob Dylan-Forever Young(from The Last Waltz)
Melody | MySpace Video

domenica 23 maggio 2010

INTEmporale



da quarantacinque anni, nella tribù non pioveva. ma stavolta le nuvole stavano arrivando, e un vento tiepido e insistente si stava insinuando da giorni, dando respiro alle gole.
lo sciamano però taceva. scrutava il cielo, saggiava con il battito delle ciglia la direzione del vento, e, la notte, c'era chi giurava di averlo visto solo, sulla collina, a seguire chissà quali traiettorie.

quarantacinque anni sono tanti solo per chi ha quarantacinque anni, o più. per chi può misurare il tempo da una data, da un ricordo. per gli altri, quarantacinque anni sono un numero, un'espressione matematica, un'assenza. neanche conoscevano, gli altri, il colore, il sapore della pioggia. e non potevano sentirne la vera mancanza, la vera necessità.

quella sera, però, la pioggia stava arrivando. febbrili, gli uomini, le donne, i bambini della tribù si riunivano vicini ai totem. chi all'aperto, chi nel chiuso delle loro case, chi, i privilegiati, attorno allo sciamano e ai suoi.
tutti segretamente ripetendo le proprie formule, ognuno la propria, per vedere se, stavolta, avrebbe funzionato. almeno stavolta.

e la pioggia arrivava.
un boato scuoteva la tribù. ed erano sorrisi, urla, abbracci, suoni, energia che fluiva libera e potente dall'uno all'altro.

quando scende la pioggia, non fa distinzioni di ceto, genere, cultura e origine. quando scende la pioggia, bagna tutti, semplicemente. e tutti si fanno bagnare.

così, succedeva che braccia bambine si intrecciavano a braccia anziane, che facce bianche sorridevano a facce nere, o gialle, che padri e figli, ricchi e poveri, colti e ignoranti superavano ogni differenza, e si trovavano, come spinti da un unico vento, fuori, tutti, a cantare, gridare, stringere, suonare, lasciarsi bagnare.

una gioia istintiva e diretta. in questa eterna preistoria del mondo.

sabato 15 maggio 2010

il ligabus

l'autista ha tatuaggi e collanine che nascondono un po' le rughe e i capelli ritinti. ma nella sua uniforme sta bene. ci sta da più di vent'anni, e il suo giro lo conosce a memoria. da qui a lì, soste, fermate a richiesta, sali e scendi di gente.

anche la gente è più o meno sempre la stessa. tipi comuni, che però pensano di essere tutti speciali, e puoi giurarci che lo sono, perché hanno capito che ognuno lo è, speciale, nei sogni e nelle illusioni. gente anche volgare, forse, anche popolare, di quella che birra stadio rocchenroll tivvù gruppo e qualche amore sparso nella vita.

il viaggio non ha sorprese né eccessive scosse, i finestrini sono un po' abbassati, giusto per far scappare l'odore di sudore e stanchezza, e dai finestrini puoi guardare il mondo fuori, ma mica tanto, perché sono appannati e sporchi di polvere. meglio ascoltare la musica che mette su l'autista. già sentita, vero. ma tutto, qui dentro, sa di pendolari e di tempo passato a rincorrere i sogni e non acciuffarli mai.

l'autista ci sa fare, coi sogni, soprattutto con quelli degli altri. li intercetta e li porta in giro, soste, fermate a richiesta, acuti e schitarrate compresi. che poi meglio non sapere se lo faccia ormai solo per mestiere, o se ogni tanto, in qualche fermata, un po' si diverta ancora, a portare in giro quei pendolari della vita, che si aggrappano quieti alle maniglie, per evitare di traballare troppo.

una cosa è certa: che quando scende, la gente canticchia le sue canzoni, almeno per un po'. e a casa ci si arriva sempre, con lui.

domenica 2 maggio 2010

ri_cordare. 2




ogni tanto i ragazzi stupiscono. hanno un silenzio di menti pensanti che dà respiro alla speranza. e ogni tanto qualcuno fa poesia. scrive parole o musica, o tutte e due, e celebra ricordi e pensieri. fa un'epica nuova, e coglie, della generazione che l'ha preceduto, ombre e luci, amori e guerre, perché altri possano ricordare. e parla la lingua dei suoi coetanei, per arrivare dritto là dove un libro di storia o un'antologia scolastica non riusciranno mai.

filippo andreani affronta la storia partigiana di gianna e del capitano neri, nata e finita all'ombra delle montagne del lago, fra tradimenti e slanci, con il soffio leggero della breva, che increspa le onde senza smuovere le correnti. una piccola storia esemplare, nel chiaroscuro di un tempo confuso ed eroico.



ri_cordare. 1




ricordare è riportare al cuore. è fare scendere nel cuore gocce di ricordi altrui, e farli propri.
ricordare è fare poesia della vita. renderla parole, o suoni, o immagini.

immergersi nei ricordi altrui con rispetto, e condividerli, significa essere vivi due volte.
'dall'adige al don' è una collana di ricordi, messa insieme dall'affetto di un nipote per un nonno segnato dal dolore più indicibile, la perdita di un figlio durante la ritirata di russia.
le voci raccontano di una storia d'amore, delle lettere, delle cartoline, delle mogli e delle madri, che hanno vissuto una tragedia collettiva, una cronaca, affrontata con l'inconsapevolezza che fosse storia, e forse proprio per questo restata ricordo comune.

sulla testa di molti degli spettatori, stasera, c'è un cappello con una penna nera.
lo stesso che portavano quei ragazzi, imbarcati su tradotte come per una gita di avanguardisti, e travolti dal gelo di una guerra ancora più feroce di tutte le altre. e negli occhi di tutti brilla la luce dell'emozione: come sempre accade, quando si toccano le corde del ricordo.

la guerra è una malattia. e la grandezza di noi, piccoli uomini, sta nel curarla col balsamo dell'arte.

mercoledì 28 aprile 2010

il glicine e il lago



così succede che, quando la vita rosicchia speranze e respiri, anche un fotogramma agganci il cuore a un'impressione che resta.
e succede che l'occhio viaggi più veloce del pensiero, e colga un frammento di bellezza sparso così, gratuitamente, senza che qualcuno ce l'abbia messo con intenzione, e senza pretese di esserlo, bello.

non sono di quelle persone che si sciolgono per 'gli_spettacoli_della_natura'. a questi, preferisco le cose fatte dall'uomo. hanno un che di stupefacente, soprattutto quando plasmano la natura e le danno senso.

un glicine è una pianta. ma, quando un glicine viene messo dall'uomo vicino a un lago, e l'uomo ha la cura e la pazienza di aspettare la primavera, il viola cangiante del glicine vicino al blu metallico del lago producono un'alchimia speciale. che, aggiunta al profumo acuto del fiore mescolato a quello dolciastro del lago, perfora i sensi e li inchioda.

e così succede che il fotogramma profumato si imprime nel cuore, e da lì, sicuro, non se ne va più.

sabato 24 aprile 2010

festa della liberazione

quando la mattina passo davanti a una scuola, vicino al baretto della scuola c'è un gruppo di ragazzine. 12, 13 anni. sono le otto e cinque, la campanella è suonata da cinque minuti, eppure loro fanno capannello lì, e chiacchierano, e fumano.

i loro sguardi sono tutti uguali. e dicono tutti una sola cosa.
'noi non siamo dentro, e non saremo dentro ancora per un po', o forse per tutta la mattinata. noi sì, che siamo libere. noi sì, che possiamo trasgredire.
chissenefrega della scuola. noi sì, che viviamo, perché siamo libere. noi possiamo esserlo, noi, sì.'

la luce dei loro sguardi ha un che di ingenuo e primitivo insieme. non c'è (ancora) malizia. non c'è esperienza della libertà. la loro libertà si esaurisce nel gesto lineare di essere lì, fuori dalla scuola, in quel momento.
ed essere o credersi libere, per loro, è lo stesso.

recuperare quella libertà sarà impossibile, anche per loro.

mercoledì 31 marzo 2010

land of hope

siamo tutti nella nave, stamattina. ma c'è aria di vacanze, di primavera, di intervalli spesi ad asciugare appunti e aoristi al sole del chiostro (ché la nostra nave non ha un cortile, ma proprio un chiostro di un ex convento).
nel chiostro, chi amoreggia con discrezione, chi ripassa, chi sfumacchia (siamo all'aperto, no, siamo all'interno di un edificio, no, ma basta non stare sotto le colonne, insomma, fai un po' quello che ti pare), chi mangia pizzette e panini.
però i clandestini, nel quarto_d'_ora_d'_aria, vogliono respirare davvero. e da un po' di tempo hanno introdotto uno strumento di respirazione cerebroaerobica. una chitarra.

si ritagliano un quarto di sole, fra le colonne e l'aperto, che sembrano i vecchietti di miracolo a milano. e uno tira fuori lo strumento. un altro una serie di fogli fotocopiati. gli altri, in cerchio attorno. e lo strumento suona. e le voci cantano.

e uno dice, chissà cosa canteranno mai. si aspetta di tutto. eppure quel pezzo...quel pezzo.



la speranza arriva col sole di una mattina per altri versi deprimente. in cui molto sembra precario, e la fiducia nel futuro non è che sia proprio a mille.
la speranza è questa terra di nessuno, un quarto di sole, a cucire i loro e i miei diciottanni con la fragilità testarda dell'unica fede che davvero tutti conosciamo: quella nell'arte.


god bless them, direbbe un mio amico.

martedì 23 marzo 2010

due sul divano



e succede che mi trovo sul divano di casa, una sera, a sentire e vedere due anziani signori che cantano e suonano.
mia mamma me la spiega, tutta la loro storia. di come si sono conosciuti, e trovati, e ritrovati. e io che ho dodici anni penso che adesso mica le scrivono parole tanto belle con sotto una musica tanto adatta.
mi danno fastidio le facce delle persone che applaudono. non sembrano tanto prese da loro, quanto dalle telecamere. e io che ho dodici anni penso che, se fossi lì, studierei bene i loro movimenti e le loro espressioni, per riuscire ad imparare come si fa a scrivere e suonare così.
mia mamma mi racconta anche com'era profondo il mare, quando erano tutti più giovani, quei due signori e anche lei, che tanto più giovane poi non dev'essere, se le sa tutte, quelle canzoni. e io penso che se riesco a trovare qualcuno che suoni con me, forse riesco anch'io ad andare a fondo delle cose, e come un pesce essere difficile da bloccare.
a un certo punto, proprio quando devo andare a letto, e sono già col pigiama, il più basso dei due parla di una canzone nuova, che ha fatto quello alto, quello che ha la voce che non arrugginisce mai, come dice mia mamma. e allora chiedo alla mamma 'dai mamma, sento questa poi vado'. e lei risponde un sì che non si sente, ma io capisco che è sì, perché sorride.
la canzone dice che non basta saper cantare. eppure la cantano, e bene. perché saper cantare serve, dice quello alto. e io penso che vuole dire qualcos'altro, che forse adesso non so spiegare bene, però che sento dentro. la canzone parla di quarto di luna, di pezzi di strada, di tempo e pazienza, di lacrime e competenza per impastare l'amore. di orsi che ballano e scimmie che suonano. e io che ho dodici anni penso che sono proprio quello stupido che si ferma a guardare, ma penso anche che quella loro storia, quei loro pezzi di strada e di cuore, adesso sono anche un po' miei.

quando sono a letto, sorrido.





(a giorgio)

domenica 14 febbraio 2010

verrà l'uomo


Per i caduti di Marzabotto

Questa è memoria di sangue

di fuoco, di martirio,

del più vile sterminio di popolo

voluto dai nazisti di Von Kesselring

e dai loro soldati di ventura

dell’ultima servitù di Salò

per ritorcere azioni di guerra partigiana.

I milleottocentotrenta dell’altipiano

fucilati e arsi

da oscura cronaca contadina e operaia

entrano nella storia del mondo

col nome di Marzabotto.

Terribile e giusta la loro gloria:

indica ai potenti le leggi del diritto

il civile consenso

per governare anche il cuore dell’uomo,

non chiede compianto o ira

onore invece di libere armi

davanti alle montagne e alle selve

dove il “Lupo” e la sua brigata

piegarono più volte

i nemici della libertà.

La loro morte copre uno spazio immenso,

in esso uomini d’ogni terra

non dimenticano Marzabotto

il suo feroce evo

di barbarie contemporanea.

Salvatore Quasimodo


ci sono film che guardiamo senza esserne guardati. quei film scorrono al di fuori di noi, e, dopo un po', si allontanano per sempre. di loro resta il titolo, qualche fotogramma, una musica.
ce ne sono altri che ci attraversano, perché ci scrutano dentro, rivelandoci la nostra storia, suggerendone il senso, lo scopo. di quei film portiamo dentro ogni dettaglio, e, quando vogliamo, li rievochiamo nel ricordo, ed ogni volta ci danno nuovi pensieri, perché, ormai, fanno parte di noi.

'l'uomo che verrà', di giorgio diritti, è uno di questi.
e non importa se l'ho visto da due soli giorni. sento già che è mio. che lo aspettavo, che era necessario per me, per il percorso che la mia vita sta compiendo.

il fluire delle immagini ha un respiro lirico nella prima parte del film, fatto di scene corali, di campi lunghi, di delicati equilibri fra uomo e natura, alla ricerca del senso della storia. l'uso del dialetto (con sottotitoli), lungi dal respingere, avvicina chi guarda, quasi di nascosto, con pudore, un mondo lontano sessant'anni, eppure che sembra impensabile, nella povertà radicale, ma anche nella solidarietà silenziosa e rude.

quando la tragedia si avvicina, anche il racconto si fa serrato, epico, con primissimi piani e un montaggio convulso. e la disumanità dell'uomo si radicalizza, penetra, con tutta la sua assurdità, negli occhi prima che nelle menti, e questi si chiedono, stupefatti, come sia potuto DAVVERO accadere.

eppure, il punto di vista, a cui il regista ci costringe a legarci, è quello di una bambina, muta testimone dell'indicibilità. a lei affidiamo le nostre paure, ma anche il compito di liberarcene. e lei assume, inesorabilmente, un ruolo allegorico, prolungando la propria vita e potenziando le proprie energie oltre sé, fino a proiettarsi in una dimensione totalmente simbolica, quella dell'anima, in cui esistono solo amore, pace, purezza.



la natura assiste, inviolata, alla profanazione dell'innocenza dell'uomo, persa per sempre nella seconda guerra mondiale, a prescindere dall'ideologia, da qualunque parte la si guardi.
eppure, la stessa natura dà conforto al dolore, restituendo dignità a chi credeva di non riuscire più a trovarla. e l'arte riproduce questa consolazione, insieme suggerendo un possibile percorso, civile prima che estetico, da compiere, dolorosamente, ma con fiducia, per recuperare le energie necessarie a riprendere il cammino. per quel bambino, e per ogni bambino che verrà.

giovedì 11 febbraio 2010

la fiducia

lunedì la nave si è trasferita, armi (l'intelligenza) e bagagli (la voglia di comunicare) a bologna. è andata da clandestina su un transatlantico, dapprima silenziosa, timida. poi sempre più sicura di sé, è uscita allo scoperto, si è lasciata coinvolgere, ha parlato e capito.
una lezione sugli stereotipi di genere presenti negli spot e negli annunci pubblicitari, tenuta dall'ottima giovanna cosenza (www.giovannacosenza.it), in un'aula raccolta, con clandestini liceali e universitari mescolati insieme.
solo gli sguardi e le prime rughette d'espressione tradivano i sei anni di differenza. per il resto, stessi jeans, stessi piercing, stessi maglioni slabbrati e sciarpone. e le voci si mischiavano, gli interventi si sovrapponevano, più ponderati quelli dei più grandi, più analitici quelli dei più giovani.
ma l'emozione, per noi, è stata forte. formare coscienze critiche attraverso il confronto. la missione più alta. per tre ore, è stata raggiunta.



due giorni dopo, nella nave, alessio brunialti e la sua chitarra hanno accompagnato cinquanta clandestini in un'escursione nel tempo, attraverso le canzoni contro la guerra. bob dylan, buffy saint john, certo, ma anche victor jara, ma anche boris vian, ma anche billy bragg e donovan.
i clandestini in silenzio ascoltano e pensano. il rumore del pensiero è palpabile.
e alla fine della lezione concerto molti si fermano a chiedere, discutere.
la fiducia nel futuro si può toccare, quando si osa chiedere.

martedì 9 febbraio 2010

love is life

quando una serata è benedetta lo capisco subito:
è quando il mondo_fuori mi sembra mio,
quando i sorrisi sono sinceri,
e le parole sono essenziali e tutte giuste,
ma gli sguardi lo sono di più.

quando ci si preoccupa per gli altri, che stiano bene come noi,
e quando succede, si sta ancora meglio.
quando si vede quel brillìo negli occhi, riflesso del nostro.

e condividere le emozioni è una gioia pura.
il filo a stringere, esile eppure tenace, è l'amore.
love is the answer, always.
quello perduto e urlato,
quello trovato e custodito,
quello sperato e atteso.
e, a dire l'amore. è la musica.

josh ritter è l'umiltà dei grandi,
marketa irglova è la tenerezza dei semplici,
glen hansard è l'energia dei carismatici,
e tutti i musicisti sul palco sono il divertimento e l'urgenza del suono,
che diventano felicità fatta note.
come quella voce a doolin, come quel biniou in bretagna, come quel violino a barcellona, come quel flauto a firenze. come ogni volta in cui la musica nasce dalla strada, e per la strada di ogni cuore si perde.

I'm not afraid to go but it goes so slow...




il mondo, per due ore, è quello che deve essere,
quello che Dio avrebbe voluto che fosse per sempre.
e il fatto che degli uomini su un palco,
e degli uomini attorno al palco,
riescano a riprodurne la formula
è un'alchimia di vita, musica e amore rara a trovare.

and I'm closer than I've ever been before...

mercoledì 27 gennaio 2010

il dovere di ricordare

se ci lasciassero tutto di noi, ma ci togliessero solo la memoria, cosa ne sarebbe di noi?
se ci potessero accusare di innominabili nefandezze, o esaltare per azioni nobilissime, senza che noi potessimo ricordare né le une, nè le altre, cosa proveremmo?

giorni come questi servono, eccome.
a continuare a ricordare.
ad aiutare a ricordare.
a costruire ricordi in chi non ne ha ancora.
a dialogare coi ricordi altrui.
io ci credo. perché credo che non siamo carne sangue e respiro. ma che carne sangue e respiro non servano a molto, se non entrano nel respiro di una storia ricordata.

per questo, ogni anno, il 27 gennaio, leggo primo levi. elie wiesel. hannah arendt. edith stein. e ogni anno, i volti dei clandestini si fanno seri, scuri. adulti, finalmente.

fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.

domenica 10 gennaio 2010

moonchild forever






sant'elvis da tupelo ha fatto la grazia.
l'emicrania è passata giusto in tempo per volare allo spazio teatro 89, un angolo di intelligenza e cultura nell'estrema periferia di milano. il posto giusto per accogliere un gigante. uno di quelli nei cui occhi ci si può perdere, sognando le centinaia di occhi che ha incrociato, e farsi venire le vertigini. quelli di dylan, townes, della mitchell, della baez, di reed o di warhol. uno di quelli con la cui voce si può sognare, perdendosi in emozioni che sfidano il tempo.

sul palco, michele gazich lo accompagna al violino, e si capisce proprio che lo ama, e lo seguirebbe ovunque.
ma c'è un'altra persona che lo ama, e che l'ha già seguito: è la sua donna, inge bakkenes. e la gioia più intensa è scoprire la loro intesa, così profonda e intima, condivisa con tutti noi.




gli sguardi che si scambiano, quei tre, fanno capire che i sentimenti esistono davvero, che possono tracimare oltre il palco e scivolare piano nei cuori di tutti. l'atmosfera è propizia, il pubblico silenzioso ('you're SO quiet...', ci dice lui), l'acustica perfetta, e andersen alterna piano e chitarra, ballads e blues come solcando le onde del mare, sempre tenendo la rotta, con la quieta potenza di una voce appena incrinata dal tempo, e perciò ancora più preziosa.



passano le ore, nessuno se ne accorge. e quando, alla fine del concerto, lui si mescola al pubblico per firmare i suoi cd, incrocio per un momento i suoi occhi.
e certo, che mi ci perdo.