domenica 31 dicembre 2017

Testardo 2017

Vagare per Milano l'ultimo dell'anno
Scrivere messaggi, cancellarli, aspettare, controllare il cellulare
Il silenzio, il vuoto, i dubbi
E poi, vedere la vita che si rovescia, si ribalta, il miracolo, l'attenzione e la riscoperta


L'inverno, il lavoro
Le sorprese della Gio
Il dolore per Luciano
Gli amici vicini
I miei sorrisi a loro
Parole, parole, e gesti semplici e diretti

I film, Jackie, Arrival, L'altro volto della speranza, Remember, La La Land, Moonlight, The Circle, Dunkirk, The greatest showman, La ruota delle meraviglie
Il teatro, Rezza Mastrella, Gioele Dix, il Piccolo, che non delude mai
Allunaetrentacinquecirca, Escovedo, Glover, Don Antonio, Dan Stuart, Jeffreys, McDermott

I viaggi
Barcellona e gli Amici e Sant Jordi
Berlino e figlia e madre e il Pergamon e il Muro
La Francia e Lourdes e i Pirenei e l'Atlantico
Bruxelles e la Gio gioiosa e il Museo Magritte

I concerti
Cave, Logic, Capossela, Caparezza, Fabi, Ligabue, Donà, Orselli, Servillo e Girotto, Silvestri e Bersani e Consoli
Stili diversi per diverse emozioni,
sere indimenticabili per diversi motivi


Ma soprattutto,
testardaggine
speranza
fiducia
amore,
sconfinato, irragionevole, testardo amore
per loro
per me
per la vita.
Nel giro di un anno, il riassunto di una vita.


martedì 19 dicembre 2017

Matteo, 25

Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere?  Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito?  E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?  Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me.  Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli.  Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. Anch'essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me. E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna.


A vent'anni, si è stupidi davvero.
A vent'anni, due volte la settimana, andavamo all'Ozanam, in Via Napoleona, a stare un po' con i barboni. Ché trent'anni fa si chiamavano barboni, e basta.
C'era Filippo, figlio della Como bene, che un giorno era passato fuori e aveva deciso di bersi tutto. E i suoi lo avevano cacciato.
C'era Mario, disoccupato, silenzioso e dignitoso.
C'era Omar, diplomato, il primo migrante che avessimo mai visto, che cercava lavoro fuggendo da un Ghana in guerra.
C'era Salvatore, il terrone, dalla vita che definire turbolenta era un complimento, barbone per scelta, per vocazione, libero e schietto.
Stavamo lì, distribuivamo la cena, ma soprattutto chiacchieravamo con loro.
Afrore di dopobarba economico, di sudore e di chiuso. Di zuppa e di fumo.
Sguardi vitrei e pelle rubizza.
Uomini, ché le donne lì non entravano, e quelle che c'erano, le volontarie, vestivano con pantaloni e maglie informi, non si sa mai.

A vent'anni, credevamo in un mondo migliore. Aspettavamo il cambiamento, lo esigevamo, anzi, e volevamo farne parte.
Quelle due sere all'Ozanam facevano parte del cambiamento. Ci credevamo tutti; forse loro no, ma noi, i volontari, sì.
Qualcuno ce la faceva. Omar usciva, diventava infermiere, condivideva una stanza con tre suoi amici.
Qualcuno no. Filippo, ostinato e ottuso, si beveva tutti i soldi che gli davamo.
Ma noi c'eravamo. Non ci importava se loro si bevevano tutto, se si impegnavano a ricostruire la propria vita, se ci ingannavano. Noi c'eravamo, e tanto bastava per credere in un mondo migliore, in una società giusta, in una pace con la nostra coscienza e con l'anima del mondo.

A vent'anni, non conoscevamo il buonismo. Conoscevamo solo la bontà.
Non sapevamo di sinistra e destra. Sapevamo solo la giustizia.
Non consideravamo un uomo in base alla sua provenienza. Per noi, era un uomo, e tanto bastava.

Sono felice, sì, felice, di aver vissuto allora i miei vent'anni a Como.
E provo vergogna, sì, vergogna, di vivere i miei cinquanta a Como.

martedì 22 agosto 2017

Lourdes, una, e due

Qui, come nella vita. Ci sono due luoghi in uno. Ci sono due realtà in una.
Di qua, e di là.
Di qua, la roccia che diventa acqua, la cera che diventa luce, e fumo, alimentati dal soffio di un vento sottile e costante.
Di qua, l'acqua che lava, la faccia lavata dalle lacrime, la grotta che accoglie e attira, calamita dello spirito, a dire "da qui vieni, qui tornerai, ma una parte di te scorrerà via, salirà al cielo, scenderà al cielo, sprofonderà all'infinito".

Di qua, l'umanità che si colora di tutte le sfumature possibili, che parla e prega in tutte le lingue inventate, che canta e balla e stringe mani e sorride in tutti i modi pensati.
Di qua, il profumo acre della cera e dell'incenso, il brillare delle candele, il suono sommesso del fiume, quello ancor più silenzioso delle preghiere che si infrangono impotenti davanti alla potenza della roccia, accarezzandola.
Di qua, la fede che diventa passi, mani a sfiorare, dita a sgranare rosari, rose a sfiorire ai piedi della statua, ruote di carrozzelle e carrozzine a scivolare sull'asfalto, corpi a spingerle, respiri, sospiri, sussurri, e ancora lacrime, di gioia confusa, speranza intimorita, amore incontenibile e ostinato per la vita. E prossimità, e solidarietà, e carità netta, pulita, senza infingimenti né esibizionismi, senza equilibrismi né sofismi. Carità che vive di fede e si nutre di speranza, e respira un solo fiato, uno spirito, che non ha colore né età, che non ha cultura né provenienza, ma un'unica appartenenza: quella all'umanità.
Di qua, corpi malati, sfigurati, tormentati; corpi bambini, vitali, energici; corpi giovani, esaltati, esultanti; corpi adulti, rassegnati, esitanti; corpi, e volti, su cui la vita è passata con violenza, o passerà, o sta passando, e i segni compongono un mosaico il cui senso si vede solo dall'alto.
Di qua, la concretezza di uno struggimento, della nostalgia di un cielo perso e intravisto per un momento, dell'attesa di quel momento futuro ed eterno.
Di là, il mercato del tempio. Le cose che diventano merce, denaro, valuta senza valore.
Di là, turisti allo sbando, persi fra moules frites e bière pression; souvenirs, objets, cadeaux, parfums, gourmandises, per intontire lo spirito.
Di là, odore di crèpes e di fritture, di lavanda e di deodorante; vetrine tutte uguali, menu turistici e trenini, negozi e hotel coi nomi di santi, statue di madonne, lo sguardo infantile e stupito di Bernadette a rincorrere il progresso e abbandonarlo un attimo dopo.
Di là, la materialità dell'esistenza, bisogni superflui spacciati per essenziali, e monete, banconote, carte di credito senza credere.

Di là, il disordine razionalmente organizzato e manipolato dei sensi, che crede di celebrare la vita nel momento in cui la pugnala, che intontisce lo spirito sussurrandogli che di qua non esiste niente.
Andare di là per mangiare e dormire; necessario per far sopravvivere il corpo.
Andare di qua per scoprire che c'è altro oltre il corpo; necessario per cercare in una roccia e in un po' d'acqua la vera sopravvivenza.

E tu, di qua, o di là?

giovedì 6 luglio 2017

Growin' up

C'è lo sfrontato, che arriva salutando la commissione come se fosse lui a esaminarla, e non viceversa,
e poi cede davanti alla prima correzione della prof di inglese.
C'è la tenerella, che trema firmando il foglio presenze, trema raccontando a memoria la tesina, trema rispondendo alle domande, e si scioglie in lacrime alla fine.
C'è la vamp, che si trascina uno strascico di spasimanti, esibisce trucco e mise da festa di laurea, e balbetta alla richiesta di un calcolo di integrali da parte di un prof insensibile al suo fascino.
C'è il supermotivato, che porta un modellino in scala del grattacielo di Burj Al Arab e ne dimostra le leggi statiche in inglese, incurante dello sguardo del commissario di italiano, che ha studiato francese.
C'è il timido, rannicchiato in sé, pallido, bocca impastata di sonno arretrato, camicina azzurra e sguardo fisso al bordo del banco, mai rivolto a chi gli fa le domande.
C'è la bravabambina, con la madre appiattita dietro la porta, perché lei non fa entrare nessuno, altrimenti si agita, e con l'atteggiamento di vittima rassegnata di un sacrificio che non capisce.
C'è il lavativo, che ha studiato tutto in pochi giorni, e centrifuga nomi, date, titoli e regole in un contenitore, gesticolando, come un prestigiatore di un circo di provincia, tentando di ipnotizzare la commissione in un numero disperato.
C'è la ragazza solida, posata, serena, che dissimula l'emozione con una parlantina sciolta, ma si vede che sotto sotto è anche lei agitata: dalle chiazze sul collo, dalla voce appena incrinata.
C'è l'appassionato, occhialoni e taglio di capelli scalato di ordinanza, sicuro, ma non sfacciato, umile, ma non servile, in grado di spaziare da Feuerbach all'omochiralità, da Joyce al magnetismo, da Manzoni allo sbarco in Sicilia, come se tutto si tenesse.

Perché tutto si tiene, infatti.
Ma pochi lo capiscono.
E gli altri annaspano, tossicchiano, interpretano silenzi e sguardi dei commissari, ribadiscono, esclamano "esatto!" alle affermazioni dei prof, a volersi allineare ad una conoscenza che non com_prendono.
"Cosa farà dopo?", la domanda di rito.
Allora, in molti, lo sguardo si anima, si perde nel futuro, immagina e spera.
Il momento più ricco di vita dell'esame orale.
Poi, sarà mondo_fuori.
E inizieranno gli esami veri.





sabato 24 giugno 2017

Dio dell'inaspettato

Dio dell'inaspettato
dei piccoli miracoli quotidiani
dell'inatteso e delle sorprese,

Dio dell'occhio spalancato sul biondo di un campo di grano
sulle trine delle nuvole nel cielo
sui passi passerotti di un bambino,

Dio dell'attesa del minuto successivo
della fiducia nel minuto domani
dell'abbandono al futuro minimo,

Dio delle partenze e dei ritorni
delle serate a squarciagola
delle fette biscottate a colazione,

Dio delle canzoni alla radio
delle chiamate inaspettate
delle coincidenze misteriose,

Dio della forza propulsiva
dell'eroismo in miniatura
dei vagiti e dei sospiri,

Dio delle scoperte
delle zattere sulle correnti
del bagaglio leggero,

Dio dei baci su teste che dormono
dei silenzi su orecchie lontane
delle parole opportune,

Dio della polvere sui ricordi
dello straccio passato di un colpo
della mano che lucida,

Dio del bene di questa vita,
dello spazio che ricuce gli strappi,
del pudore nell'amore,

ti prego,
allontana da noi la tentazione
dell'abitudine
delle consuetudini
dello scontato.

E facci stupire
sempre
per una voce al telefono.


martedì 4 aprile 2017

sto su me

anno ricco,
anno denso,
emozionante,
sfiancante,
dolce e duro.
anno di lontananze e vicinanze,
di amici reali e lontani,
di conoscenti vicini e distanti,
di sorrisi nel pianto e viceversa.
anno di delusioni e illusioni e disillusioni,
di disincanti e canti.
anno di poesia e musica a intontire,
di letture e viaggi a lenire,
di pensieri e ricordi a sostenere.
anno di analisi,
di sintesi,
di ricapitolazione e di tremore.

anno di promesse non mantenute
e di sorprese inaspettate,
di immobile movimento,
stabile percorrere una china inesplorata,
di stare su me,
sulla mia anima malconcia,
su rimpianti di decenni,
su speranze sempre più corte.

anno di regali di ogni giorno,
strappati con ferocia
dalla bocca del presente.
e aprila, questa bocca, presente.
regalami l'unica dimensione in cui io sto bene,
perché scevra di ricordi laceranti
e di paure ingombranti.
aprila, questa bocca, presente.
e, giorno dopo giorno,
fammi costruire
il prossimo anno.

lunedì 6 febbraio 2017

Slàinte, Luciano


Vieni qui, che ti racconto una storia.
C'era una volta una persona gentile, che amava l'Irlanda. L'aveva percorsa in lungo e in largo, col treno.
Perché lui di treni se ne intendeva.
Trent'anni da pendolare, Legnano Milano, avanti e indietro, sull'odiosamata Trenord, a leggere leggere leggere, e ascoltare musica, ottima musica. Soprattutto irlandese.
Dal finestrino, a volte, rare volte, la campagna dell'hinterland milanese si accende di qualche sprazzo di verde. Un verde lontanissimo da quello smaltato dell'Irlanda, ma comunque a lui piaceva lo stesso guardarlo, perché coltivava nel cuore un sogno: andarci a vivere, in Irlanda, vicino a Galway, in una piccola casa rossa sul porto. L'oceano di fronte, e nel cuore la musica.


Dal finestrino della sua vita, vedeva e viveva passioni autentiche: i libri, la musica, certo, ma anche il basket, la scrittura, l'amicizia, la politica nel senso alto del termine. E i suoi compagni di viaggio apprezzavano la sua presenza, elegante, discreta, fine, sensibile, intelligente, umile e quindi grandissima.
Bello era incontrarlo ai concerti; competente, preciso, attento, senza essere spocchioso né saccente, li gustava con il piacere di una pinta di Smithwick's o di Guinness; e, poi, ne parlava con trasporto ed equilibrio insieme. Nel modo a lui peculiare, con un sorriso.

Da quando era entrato nel mondo virtuale di Facebook, i racconti dei suoi viaggi erano subito diventati un piacevole e irrinunciabile appuntamento per tutti i suoi contatti. Arguto, ironico, sapeva cogliere i minimi dettagli che rendono una situazione unica e indimenticabile, nel bene e nel male. In questo modo sapeva resistere ai disagi, alle mediocrità, agli inconvenienti del viaggio. Di qualunque viaggio.

Un viaggio non qualunque, il suo. Fino all'ultimo, vissuto con dignità suprema, forza e gentilezza.
C'era una volta Luciano Re.
No, non andare via con quello sguardo triste.
Ho sbagliato. Non c'era una volta.
C'è ancora. Nei nostri cuori.
Slàinte, Luciano.